Violenza sulle donne e guardie giurate, un accostamento inaccettabile

Nel giro delle ultime settimane, tre storie di femminicidio hanno avuto come protagonisti altrettante guardie giurate. L’8 giugno Manuel Venier ha ucciso a Codroipo (UD) la fidanzata e si è suicidato con la pistola di cui era in possesso da quando lavorava come guardia giurata; il 28 maggio una ragazza di 22 anni è stata strangolata e bruciata a Roma dall’ex compagno Vincenzo Paduano, guardia giurata; poche settimane prima, il tribunale di Roma aveva inflitto cinque anni di reclusione ad Alessandro Popeo, guardia giurata, per l'uccisione dell’ex compagna con la pistola di servizio.

Episodi che stanno turbando l'opinione pubblica, con una ridda di interrogativi sui controlli delle condizioni psichiche delle guardie giurate, sulle modalità di rilascio del porti d’arma e sullo stress per turni di lavoro troppo pesanti, per lo sfruttamento che subiscono da datori di lavoro disonesti, per la perdita del posto dopo la chiusura dell’azienda.

Sono interrogativi che compromettono ulteriormente l’immagine di una categoria di lavoratori entrata da tempo in una profonda crisi identitaria dovuta ai cambiamenti irreversibili del mercato della sicurezza e della struttura degli istituti di vigilanza privata.

In questi momenti si è aperta una caccia a coloro che avrebbero “armato con colpevole leggerezza mani assassine”, come si legge nelle cronache e nei social, inondati da commenti allarmati per la ripetizione delle violenze compiute da guardie giurate contro le proprie compagne o ex tali. Tornano d'attualità le inchieste giornalistiche che avevano già descritto un quadro preoccupante, come il servizio delle Iene del 2014 o l’inchiesta di Presadiretta di quest'anno.

Una situazione troppo complessa e delicata per trovare risposte adeguate sotto la spinta dell’emotività.

Ma un aspetto può e deve venire colto nell’immediato dalle istituzioni dello Stato e dalle parti sociali alle quali fanno riferimento le guardie giurate: il possesso dell’arma successivamente all’interruzione del rapporto di lavoro. Un problema di cui Ministero dell’Interno, sindacati e associazioni datoriali parlano da anni, senza aver fatto finora nulla di concreto.

L’attuale legislazione in materia di armi prevede che la pistola debba essere di proprietà della guardia giurata, “costretta” dalla normativa ad acquistare all’inizio del rapporto con l’istituto di vigilanza, ma che può tenere dopo il termine, semplicemente denunciandone il possesso, anche se il termine del rapporto di lavoro comporta la cessazione della qualifica di guardia giurata e la conseguente perdita del porto d’arma ad essa correlato.

Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2015 le licenze di porto d’arma per guardie giurate sarebbero diminuite di quasi 10.000 unità, passando da 53.368 a 43.705, a seguito di chiusure e ristrutturazioni aziendali e passaggi ai servizi non armati (servizi fiduciari, portierati).

Ebbene, quante sono le pistole rimaste (regolarmente) in mano a queste quasi 10.000 persone? Che uso ne possono fare, magari spinte alla depressione proprio per aver perduto il posto di lavoro? Qual è il senso di una simile diffusione di armi, inutili per qualsiasi scopo socialmente comprensibile ma drammaticamente funzionali a episodi come quelli di cui si sta parlando?

Ricordiamo: l’ultimo omicida/suicida, Manuel Venier di Codroipo, era una ex guardia giurata che, secondo quanto riportato dalle cronache locali, avrebbe sparato con la pistola regolarmente denunciata, acquistata quando prestava servizio presso un istituto di vigilanza.

A cura di Raffaello Juvara

 

#guardie giurate #violenza sulle donne #Manuel Venier #Vincenzo Paduano #Alessandro Popeo

errore