IA, quando il problema non è l’algoritmo

editoriale di essecome

Secondo l’ultimo report globale di Workday che esamina gli effetti della IA nel mondo del lavoro, la maggioranza di chi la sta già utilizzando ritiene che porti benefici nel processo lavorativo, aumenti la trasparenza e la responsabilizzazione e permetta agli umani di occuparsi di mansioni più elevate, in particolare quelle che richiedono empatia, come la costruzione di relazioni e la risoluzione di conflitti interpersonali.
In altre parole, chi ha esperienze dirette della IA nel lavoro ritiene che non ci sarebbero problemi ad affidare alle macchine le mansioni che non richiedono capacità di esclusivo appannaggio degli umani, sgomberando così il campo dai residui timori dell’opinione pubblica sul suo impiego su larga scala.

La notizia è contemporaneamente buona e cattiva.

Buona, anzi ottima, quando la IA viene utilizzata in applicazioni che aumentano le capacità dei lavoratori umani o che permettono di sopperire alle carenze di organici nei servizi essenziali e nella produzione causate dal calo demografico in tutto l’occidente.
Di fronte alla diminuzione irreversibile della popolazione autoctona attiva, aggravata negli ultimi anni dalla mancanza di politiche lungimiranti di accoglienza e di inserimento di immigrati, un cambiamento dei modelli produttivi incentrato sull’impiego delle macchine “intelligenti” è senza dubbio la soluzione più vantaggiosa e immediata.
Per le organizzazioni, gli effetti positivi sono evidenti e misurabili in termini di produttività, redditività, riduzione dei rischi; per i lavoratori in termini di possibilità di carriera, aumento dei salari, miglior ambiente di lavoro.

E’ cattiva, anzi pessima, se le stesse applicazioni venissero invece utilizzate per eliminare i lavoratori umani dalle fabbriche solo per aumentare i profitti, come propone il modello sociale ultraliberista concepito nella Silicon Valley.
Un modello che vede da una parte un pugno di “tecno monarchi” esercitare un potere assoluto a livello planetario, grazie al controllo dei dati e delle tecnologie abilitanti; dall’altra masse sterminate di persone senza lavoro e, quindi in povertà totale.
Uno scenario distopico che provocherebbe inevitabilmente conflitti sociali violenti dei quali la IA sarebbe solo causa inconsapevole.

Gli algoritmi non hanno meriti né colpe in quanto “utensili” seppure sofisticati che vengono manovrati da umani ai quali competono tutte le responsabilità del loro impiego, perlomeno fino a quando non dovesse scoccare la scintilla dell’autodeterminazione.
Non sappiamo se questo potrà mai avvenire in un futuro più o meno lontano o se, invece, in qualche remoto laboratorio già ci sia qualche sperimentazione in corso.
Il solo pensiero di quel fantasmatico momento rievoca inquietudini ancestrali nell’immaginario collettivo ma, guardando alla storia passata e alle cronache dei nostri giorni, viene da chiedersi cosa mai potrebbe fare di peggio un algoritmo contro di noi rispetto a quello che già sappiamo fare da soli.

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