Vigilanza privata, dove sta l’anacronismo

Marco Stratta, Segretario Generale di ANIVP, analizza la situazione della vigilanza privata nella “nuova normalità” tracciando un quadro molto preoccupante, al punto da lanciare un appello ai colleghi delle altre associazioni per un’azione congiunta più forte utile a migliorare la vita della categoria e salvaguardare l'occupazione.

Cosa sta succedendo alla vigilanza privata in questo particolarissimo autunno 2020?
Da buon piemontese, non è mia abitudine esternare comportamenti troppo evidenti o che possano creare disturbo agli altri. Mia nonna diceva: “ma poi cosa pensa la gente?” Forse abbiamo paura di venire giudicati e di dover gestire le conseguenze di un proprio agire. Esprimersi in Italia non è facile, per cultura e tradizione nessuno come l’italiano sa esaltare o stroncare una posizione. Roberto Saviano definiva quest’ultima attività come “la macchina del fango”.E’ per me dunque un grande sforzo rendere pubbliche alcune considerazioni su una domanda molto specifica ma anche importante, non solo per me: cosa è veramente superato nel settore della vigilanza privata?
Per cercare delle risposte costruttive alla domanda, è utile che faccia una premessa.
Esattamente dieci anni fa è uscito il DM 269/2010 che doveva riformare il settore aprendolo al mercato e trasformando gli “istituti di vigilanza” disegnati dal Titolo IV del Regio Decreto 18 giugno 1931 n. 773 (TULPS) in moderne “imprese di sicurezza” attraverso la rimozione di due cardini fondamentali dell’impianto normativo originario: i limiti territoriali e i tariffari, a cui si doveva affiancare la professionalizzazione degli operatori.La riforma è rimasta invece parzialmente incompiuta a causa della volontà dell’Amministrazione di mantenere il controllo sulle attività delle imprese e degli operatori, le guardie particolari giurate, impedendo che venisse rimosso anche il terzo cardine della “totale dipendenza autorizzatoria”.
Un vincolo fortissimo, comprensibile alla luce del DM 154/2009 sulla sicurezza partecipata, ma che, nei fatti, impedisce alle aziende di rispondere in modo puntuale alle richieste del mercato, dovendo rispettare procedure “pre-riforma” e sottostare ai tempi operativi delle strutture territoriali preposte. Il problema diventa paradossale quando riguarda l’impossibilità di rispondere alle richieste proprio di servizi di sicurezza partecipata provenienti da gestori pubblici di obiettivi sensibili (porti, aeroporti ecc).

Cosa è quindi superato?
Non credo proprio lo siano gli istituti di vigilanza, almeno la maggioranza. La posizione è ampiamente motivata.
In un settore dove le aziende medie non superano i 50 dipendenti, le imprese di vigilanza hanno fatto passi da gigante dalla sentenza della Corte Europea del 2007, quasi una mutazione genetica. Sono passate da strutture che sopperivano a gravi carenze manageriali, tecnologiche ed organizzative solo grazie ad un collante di impronta quasi militaresca, ad organizzazioni societarie mediamente di maggiori dimensioni, con un apporto tecnologico, manageriale ed organizzativo molto più elevato, evolvendo perfino la vision aziendale e affacciandosi in alcuni casi nel mondo della “security system integration” con sempre più frequenti partnership con player di settori complementari. Già solo la terminologia aiuta a capire l’evoluzione.
In questo scenario non considero poi superato il ruolo della guardia giurata, semmai è poco difeso. La riforma normativa del 2010 ha voluto riconoscere delle prerogative che erano corrette e sensate nell’ambito di un contesto pubblicistico che non poteva cedere troppo al privato ma necessitava, almeno come utente, di figure di riferimento comunque maggiormente qualificate. Oggi è lo stesso contesto pubblico a derogare agli obblighi sia per ignoranza delle leggi che per mera necessità di risparmio (gli Uffizi di Firenze sono solo un esempio). Di conseguenza, le aziende sopportano obblighi e impegni cogenti in materia di formazione e qualificazione del personale, senza poterli scontare adeguatamente sul mercato.

Si parla da tempo dei problemi di dialogo con le autorità tutorie. Qual è la situazione ad oggi?
Elencando le cose desuete per il nostro settore, si dovrebbe parlare delle autorità tutorie ma, sinceramente, ha poco senso. Le autorità semplicemente esistono e cercano di fare il loro dovere nell’alveo degli strumenti in dotazione. Semmai, gli operatori sono troppo spesso in balia della linea politica del momento o della sensibilità personali del funzionario-dirigente preposto.

Come conciliate i ritmi imposti dal mercato con i tempi e i modi dello schema autorizzatorio originario?
Questo è il punto nodale, la cosa veramente-assurdamente-drammaticamente “vecchia”: le procedure che regolano la vita quotidiana del settore, ovvero le dinamiche autorizzatorie.
Alcuni esempi per capirci meglio:

 1. Come può un settore totalmente esposto alle regole del mercato, assolutamente immerso nel contesto privatistico, poter competere decorosamente se impiega mediamente 3 mesi per autorizzare un operatore come “guardia particolare giurata”?

 2. Perché dobbiamo mandare i documenti per il rinnovo dei titoli mediamente 60-90 giorni prima della scadenza, e talvolta non basta nemmeno questo termine?

 3. Perché alla fine del lock-down tutti i settori produttivi non vedevano l’ora di ripartire mentre la vigilanza privata non poteva invece assumere nuovo personale in quanto le sedi del Tiro a Segno Nazionale restavano chiuse? Hanno riaperto solo in ordine sparso e molti non rilasciavano gli attestati, con una situazione che ha cominciato a normalizzarsi solo dopo ferragosto

 4. Perché se una impresa che decide di fare una operazione societaria, che magari salvaguarda parte dell’occupazione da un fallimento, deve impazzire tra mille differenti procedure-valutazioni-interpretazioni delle svariate Prefetture e Questure? E’ forse troppo pretendere una linea di condotta univoca che non porti l’imprenditore a rischiare sanzioni, sospensioni, incameramenti di cauzioni?

Ecco cosa nel nostro settore è veramente “vecchio”, “anacronistico”, “superato”. E non credo che questi problemi siano il prezzo da pagare per garantire il controllo e la tutela del sistema, penso piuttosto sia solo un problema organizzativo da superare al più presto.

In che modo?
Mi rivolgo ai colleghi delle altre associazioni che conoscono perfettamente i problemi descritti, e chiedo:
vogliamo fare qualcosa assieme, per cercare di dare una vita più decorosa a queste aziende che, che portano ancora il titolo di “istituti” di vigilanza?
Francamente, non credo che ci siano altri problemi più importanti da affrontare prima di questo.
Abbiamo la capacità, le competenze e le conoscenze per fare, e fare bene.

a cura della Redazione | in caso di riproduzione citare la fonte

 

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