“Dentro o fuori”: il dilemma di molti Security Manager al tempo della pandemia COVID-19

Tra gli innumerevoli problemi causati dalla pandemia COVID-19, molte aziende si sono trovate nella delicata posizione di dover assumere decisioni strategiche in tempi molto rapidi sul rientro del proprio personale all'estero, potendo contare su dati parziali e in costante evoluzione. Ne parla a essecome Daniele Grassi, Security Risk Manager di IFI Advisory.

La dichiarazione di pandemia globale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lo scorso 11 marzo, ha ufficializzato una situazione di gravissima emergenza che, dall’area di Wuhan (provincia di Hubei in Cina), si è progressivamente estesa a livello internazionale, spingendo i governi nazionali ad attuare politiche restrittive volte soprattutto ad evitare eccessive pressioni sui rispettivi sistemi sanitari, onde evitare significative conseguenze sul carattere sociale, oltre che su quello sanitario.

In una simile situazione di emergenza, molte aziende si sono trovate (e si trovano tuttora) nella delicata posizione di dover assumere decisioni strategiche, potendo contare su dati parziali e in costante evoluzione.
Si consideri, ad esempio, il caso delle aziende con attività all’estero, costrette a decidere, in tempi estremamente rapidi, se rimpatriare o meno il personale.
Una simile decisione, il cui esito sembrerebbe scontato a seguito della dichiarazione di pandemia globale dell’11 marzo cela, in realtà, numerose considerazioni.

In primo luogo, il rimpatrio del personale equivale, in molti casi, a una sostanziale sospensione delle attività svolte in un determinato paese, con conseguenze spesso molto gravi per il business.
Se è vero che la dichiarazione dell’OMS ha consentito a molte imprese di invocare lo stato di forza maggiore e tutelare, in questo modo, i propri interessi di breve periodo, una simile decisione comporta in ogni caso una perdita di competitività rispetto ad altri player locali e internazionali, con la conseguente difficoltà di riposizionarsi su quel mercato, una volta conclusa l’emergenza.

A considerazioni di carattere economico, se ne aggiungono altre che attengono, da una parte, alle capacità e alle risorse dei Paesi ospitanti e, dall’altra, alla disponibilità e all’apertura di collegamenti stradali, aerei o marittimi, da utilizzare in caso di deterioramento delle condizioni sanitarie, sociali e/o di sicurezza.

A quest’ultimo riguardo, si evidenzia come un numero sempre più alto di Paesi abbia disposto la chiusura temporanea dello spazio aereo e dei propri confini marittimi e terrestri, non consentendo movimenti né in entrata né in uscita.
In molti altri casi, si è comunque assistito a una progressiva riduzione dei collegamenti disponibili, con la conseguente difficoltà di intervenire in caso di necessità (se non avvalendosi di provider specializzati, con costi relativamente elevati).
Questo ha di fatto determinato la necessità, per le aziende con personale all’estero, di definire, in un lasso di tempo estremamente limitato, i criteri sulla base dei quali decidere se optare o meno per il rimpatrio.
A differenza delle emergenze determinate da conflitti, da situazioni di instabilità politico-sociale o da disastri naturali, in questo caso, la decisione deve inoltre tener conto della situazione esistente nel Paese di rimpatrio, talvolta più grave di quella che si registra, perlomeno in quel determinato momento, nello Stato che si dovrebbe lasciare.
Ciò può contribuire ad alimentare una certa resistenza nel personale per il quale si sta valutando l’ipotesi del rimpatrio, aggiungendo un’ulteriore variabile a quelle già citate.

Tali valutazioni, già di per sé complesse, scontano, inoltre, la relativa scarsità di dati e informazioni certe, specialmente in determinati contesti geopolitici.
Nelle ultime settimane, ad esempio, si è a lungo discusso circa l’affidabilità dei dati sui contagi forniti da molti Stati africani, ritenuti poco credibili da diversi osservatori ed esperti, specialmente in considerazione della presenza di estese comunità cinesi e, più in generale, del notevole scarto rispetto ai casi di contagio registrati, non solo in Europa, ma nella maggior parte dei Paesi nel mondo.
Inoltre, è stata da più parti sottolineata la difficoltà e, per certi versi, l’inutilità di comparare situazioni estremamente eterogenee in termini di capacità di rilevare i casi di contagio, ritenendo correttamente che tale dato sia strettamente collegato a quello relativo al numero di tamponi effettuati sulla popolazione con sintomi più o meno gravi.

Sempre con riferimento alla diffusione dei contagi, si rileva come molte analisi facciano erroneamente riferimento al numero totale dei casi di contagio, fornendo informazioni talvolta fuorvianti o, comunque, poco utili ai fini decisionali.
Considerare il numero complessivo di contagi è come voler comparare il livello di urbanizzazione di due o più Paesi, limitandosi a contare il numero di edifici costruiti nel corso del tempo. Per determinare la situazione epidemiologica di un determinato Paese sarebbe, al contrario, opportuno riferirsi ai soli casi attivi, eventualmente parametrizzando tale valore su quello della popolazione complessiva.

Come già accennato, tra gli elementi più importanti da considerare quando si valuta l’eventuale rimpatrio di personale dall’estero vi è certamente quello relativo alla capacità dei Paesi ospitanti di fornire assistenza medica di qualità, anche nel caso di un aumento significativo delle richieste.
A tale riguardo, sono numerose e complesse le variabili da prendere in considerazione: qualità complessiva del sistema sanitario (in termini di risorse e competenze del personale medico e infermieristico); disponibilità di unità di terapia intensiva (posti letto; ventilatori meccanici; ecc.); accessibilità delle cure mediche; percentuale della popolazione a rischio ricovero in caso di contagio (immunodepressi; over 65; persone con patologie respiratorie e cardiovascolari; ecc.); disponibilità generale di risorse da attivare in caso di emergenza; efficienza dell’apparato statuale; ecc...
Tale analisi, tuttavia, non può prescindere dalla disponibilità di dati affidabili, aggiornati ed esaustivi, oltre che da specifiche competenze di settore. Il rischio, in caso contrario, è quello di effettuare valutazioni parziali, basate perlopiù su convinzioni diffuse e conoscenze superficiali.

Infine, l'epidemia globale ha il potenziale per alimentare ulteriore instabilità in stati fragili, innescare disordini diffusi ed esacerbare tensioni latenti in Paesi caratterizzati da condizioni socio-economiche già precarie.
L’interruzione di flussi di aiuti umanitari, la limitazione o il rinvio di alcune operazioni di pace e l’ipotizzabile congelamento degli sforzi diplomatici potrebbero spingere alcuni leader politici a tentate di sfruttare la pandemia per far avanzare i loro obiettivi, approfittando della generale distrazione della comunità internazionale.
Più in generale, l’inevitabile peggioramento delle condizioni di vita di ampi settore delle popolazioni dei Paesi maggiormente colpiti, direttamente o indirettamente, dall’epidemia potrebbe favorire l’esplodere di situazioni di pregressa tensione sociale, oltre che episodi di violenza mirata o indiscriminata, e abusi da parte delle forze di sicurezza.

Si tratta, a ben vedere, di valutazioni estremamente complesse su variabile molto eterogenee.
Inoltre, l’overflow informativo generatosi nelle ultime settimane sull’emergenza coronavirus ha come effetto quello di aggiungere ulteriore confusione, oltre che un certo senso di smarrimento nelle figure aziendali chiamate ad assumere decisioni di carattere strategico.

Un corretto processo di valutazione deve, invece, distinguere ciò che è davvero rilevante dalle informazioni che contribuiscono, al contrario, ad alimentare un inutile e, spesso, dannoso ‘rumore di fondo’, concentrandosi sulle seguenti variabili:

• livello e andamento dei casi di contagio attivo, con specifico riferimento alle aree maggiormente colpite;
• qualità complessiva del sistema sanitario;
• capacità del sistema sanitario di gestire l’emergenza in corso, con relativa stima della soglia di break-even (il punto oltre il quale si configurerebbe una situazione di sostanziale collasso);
• specifica esposizione aziendale, in termini di persone e asset presenti in ogni Paese;
• restrizioni sui movimenti in entrata e in uscita dal Paese;
• misure adottate internamente per far fronte all’emergenza;
• possibilità, per il personale espatriato, di procurarsi beni e servizi di prima necessità (compresi i medicinali) e, più in generale, di disporre degli strumenti e dei mezzi necessari per affrontare una situazione di autoisolamento e forte stress;
• condizioni di sicurezza nel paese, anche alla luce di un possibile aumento di attacchi xenofobi e dei disordini sociali, per via delle restrizioni imposte dal governo e di un prevedibile deterioramento delle condizioni di vita della popolazione;
• abilità, da parte dello Stato ospitante, di mantenere l’ordine e la sicurezza in caso di deterioramento della situazione;
• rischio di attacchi mirati contro gli stranieri, specialmente in caso di penuria di beni di prima necessità.

A cura di Daniele Grassi - in caso di riproduzione citare la fonte

 

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