Contagi sul posto di lavoro, quali sono le responsabilità dell'azienda? Il parere del legale
Dopo i focolai di contagio da coronavirus individuati in realtà aziendali molto diverse e balzati al centro delle cronache delle scorse settimane, facciamo il punto con l'avvocato penalista Massimo Davi sulla posizione dei datori di lavoro in relazione al rispetto delle procedure di sorveglianza sanitaria. Come può influire la posizione dei "negazionisti"?
Di fronte alle recenti scoperte di focolai da Covid-19 in luoghi di lavoro molti diversi - dagli allevamenti di bestiame nel mantovano allo stabilimento di lavorazione di carni a Treviso a discoteche in Sardegna - quali sono le possibili responsabilità dei datori nei confronti dei propri dipendenti che si sono infettati nel luogo di lavoro?
I profili di responsabilità non cambiano molto rispetto a quelli dei mesi scorsi. Il datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., e delle norme del D. Lgs. 81/2008 deve predisporre ogni presidio per evitare che i suoi dipendenti si contagino, o contagino colleghi, sul luogo di lavoro. Il fatto che si sia sviluppato un focolaio in azienda (e che qualche contagio sia necessariamente avvenuto proprio sul luogo di lavoro) imporrà nel caso di vedere quali presidi e procedure erano in concreto state attivate per scongiurare la diffusione del virus. Credo che anche le aziende più virtuose vivano una certa percentuale di incertezza per cui il rischio residuo rimane comunque sempre in un certo qual modo alto. Ormai ogni azienda ha attivato procedure di sorveglianza sanitaria in grado, almeno in astratto, di limitare la diffusione del virus sui luoghi di lavoro. Il rientro dalle ferie di personale che sia stato a contatto con molte persone, in luoghi magari molto lontani, impone non solo di non abbassare la guardia ma di prevedere eventualmente procedure di sorveglianza sanitaria ulteriori per scongiurare il caso che il virus possa entrare in azienda. Dopo la fase dell’istituzione delle procedure di sorveglianza sanitaria (che è stata la scommessa per la ripartenza) ora il tema si sposta sulle modalità di controllo della corretta ed assidua applicazione di quelle medesime procedure. Il fatto che siano stati rilevati focolai potrebbe essere anche paradossalmente la prova che i controlli funzionano posto che il monitoraggio costante e ripetuto nel tempo è una condizione indispensabile per tutelare la salubrità delle condizioni di lavoro. In questo senso il focolaio potrebbe essere l’evidenza dell’efficacia dei controlli (anche in relazione al fatto della velocità del contagio).
Dal suo punto di osservazione, è possibile valutare oggi se quel "normale criterio di attribuzione di responsabilità secondo il combinato disposto di cui all'art. 40 C.P, le previsioni di cui al D. Lgs. 81/2008 e gli artt. 589 e 590 C.P." da lei richiamato in occasione della tavola rotonda del 28 maggio venga correttamente percepito dai diversi soggetti coinvolti (datori, lavoratori, sindacati, DTL, INAIL)?
Sinceramente credo di sì. Gli imprenditori sono molto preoccupati sia della salute dei propri dipendenti sia di scongiurare futuri lockdown o interruzioni della produzione. In questo senso la cautela che applicano è assai elevata e molti si sono attivati per mettere in campo le migliori procedure di prevenzione e di controllo sanitario. Ovviamente il virus è insidioso ed il rischio che le scelte tecniche di tutela si rilevino inefficaci esiste. Ma credo che la consapevolezza del problema, delle conseguenze giuridiche di eventuali negligenze, del rischio che nuovi stop delle attività provocherebbero il tracollo del sistema economico, porti tutti ad assumere atteggiamenti molto responsabili. In questo senso ogni categoria di soggetti nell’ambito delle proprie specificità e prerogative sta cercando di percorrere anche soluzioni di buon senso e di compromesso che consentano da un lato la normalizzazione delle relazioni sociali, dall’altro la sostenibilità economica di un sistema molto fragile.
Quanto ritiene possano influire sui comportamenti individuali posizioni "negazioniste" piuttosto che "allarmiste" nell'adottare o meno adeguate misure di prevenzione, laddove esista un "duty of care" nei confronti di altri?
Parecchio. Come in ogni altro ambito la soglia di cautela percepita dal singolo segue andamenti sinusoidali con up e down ciclici. Maggiore è la preoccupazione maggiore è l’attenzione. Il passare del tempo porta con sé fasi “rassicuranti” in cui la guardia viene abbassata e, sino al nuovo spavento, possono certamente insorgere atteggiamenti di lassismo che possono essere molto pericolosi. In ambito aziendale questo potrebbe coincidere con una pericolosa, quanto ciclica, attenuazione dei controlli. In linea generale però la reazione della cittadinanza è stata disciplinata e, questa è una mia opinione, molte condotte poco prudenti sono state il frutto di direttive confuse e di cattiva informazione, piuttosto che di una volontà di danneggiare gli altri, gli amici, i genitori, i colleghi, i vicini. Le posizioni negazioniste circa l’epidemia in sé, ma anche i rimedi messi in campo, credo interessino una percentuale molto bassa di popolazione. Sul luogo di lavoro il problema non dovrebbe esistere nella misura in cui adeguate tutele preventive dovrebbero imporre che chi accede all’azienda rispetti i protocolli di sicurezza previsti.
E quanto potrebbe influire in sede di giudizio la mancata adozione di adeguate misure per la protezione di dipendenti e/o clienti conseguente ad una posizione "negazionista"?
Non credo sinceramente che un imprenditore od un commerciate possano permettersi di assumere atteggiamenti lassisti in questa materia perché, ove il contagio avvenisse, ovvero intervenissero controlli tali da sospendere le attività, i primi danneggiati nel “portafoglio” sarebbero proprio loro. Ragionando per paradosso, però, occorre distinguere: il negazionista imprudente, negligente o che per partito preso non adotti sul luogo di lavoro le doverose cautele per la propria ed altrui salute: egli, nella misura in cui sia provato che sia, o sia stato, veicolo di contagio, potrebbe in astratto essere chiamato a rispondere in sede giudiziale a titolo di colpa del contagio di altre persone. Ma questa è una situazione in cui la prova della responsabilità appare molto ardua. Diverso è il caso del negazionista che sia consapevole di essere già malato e che, quale veicolo del virus, scelga di non adottare cautele a tutela della salute altrui. Nel caso che occupa la scelta negazionista non sarebbe più frutto della colposa sottovalutazione del rischio ma piuttosto frutto di una deliberata volontà di agire in un determinato modo. Se si verificasse un quadro del genere, e fosse opportunamente accertata la responsabilità dell’“untore”, questa sarebbe dolosa e diretta. A mio modo di vedere, però, si tratta di ipotesi poco verosimili in quanto le aziende dovrebbero comunque aver valutato le “posizioni negazioniste” quale “rischio specifico” e, di conseguenza, assunto le doverose contromisure di mitigazione del rischio impedendone l’accesso sul luogo di lavoro.
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